domenica 12 ottobre 2014

Di libri, resoconti e 'autistiche annotazioni'..

Vercelli, 11.10.2014 Gianluca Nicoletti e Alessandro Barbaglia
Ieri ho partecipato alla presentazione del libro "Alla fine qualcosa ci inventeremo" di Gianluca Nicoletti e devo confessarvelo, ho corso il rischio di scrivere questo post come solitamente scrivo i miei articoli. Forza dell'abitudine credo, dal momento che faccio la collaboratrice in un giornale locale da molti anni. Me ne stavo seduta ieri  pomeriggio ad ascoltare gli ospiti e il moderatore e già mi organizzavo il lavoro mentalmente, annotavo i nomi dei presenti, costruivo frasi e immaginavo paragrafi. Intendiamoci, adoro scrivere articoli, ma questa volta volevo provare qualcosa di nuovo. Così di colpo mi sono fermata e ho pensato che no, 'stavolta ascolto e basta'. Niente appunti, niente foto (solo un paio di scatti con il cellulare), niente 'Oddio, come si chiama quella tipa con la maglia nera che ha detto quella frase importantissima'. 
Insomma, 'ascolto tutti e poi scrivo di pancia'. Lascio decidere a voi se sia stata o no una buona idea..:)
Il nuovo libro di Nicoletti, di cui potete leggere anche il blog, fa seguito a "Una notte ho sognato che parlavi" pubblicato nel 2013. La storia di un padre, del figlio autistico e della loro convivenza col mondo esterno: "Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico". Ho deciso di andare alla presentazione di questo libro perchè immaginavo, e a ragione, che "da disabile a disabile" la storia di Tommaso raccontata per voce del padre avesse qualcosa da regalarmi/insegnarmi.
'Alla peggio', pensai, 'me ne tornerò a casa esattamente come quando ne sono uscita'. Non è stato così, ovviamente.

Non avendo mai letto nessuno dei due libri, e avendone solo distrattamente sentito parlare, sono arrivata alla presentazione piuttosto impreparata. E mica solo nel senso più intellettuale del termine, ma a un livello decisamente più basico, perchè mi sono accorta soltanto di fronte alla simpatica signorina del book shop di avere soldi sufficienti per comprare solo uno dei due libri.

'No ma, molto bene. Brava, Denise!'

Con la faccia del 'ma quanto sono stupida' e mentre farneticavo inutili spiegazioni alla giovane commessa che mi fissava smarrita, ho optato per il primo libro e da ieri sera lo sto letteralmente divorando. Non solo perchè Nicoletti possiede una scrittura ironica e travolgente cui io anelo dai tempi del giornalino scolastico delle medie. Ma anche perchè, senza saperlo, Tommaso e il suo papà mi hanno fornito una prospettiva in più sul mondo della disabilità.

Fonte: facebook.com/gianluca.nicoletti.fanpage
Di tutto ciò che Nicoletti ha detto e scritto, un concetto in particolare ha toccato le mie corde: un autistico, per sua stessa conformazione di base, è portato naturalmente a rapportarsi con l'altro in forma 'pura', slegato com'è da tutto quella complessa rete di do ut des che sono alla base di tutti i rapporti sociali.
Per spiegarvelo userò le parole stesse dell'autore:

Ogni nostra angustia, la maggior parte delle volte, è influenzata da un'interferenza di comunicazione. Se per un giorno azzerassimo il bisogno di comunicare che ci rende bestie sociali, saremmo anche noi normalmente autistici. (...) il cervello dell'uomo a noi sembra funzionare a puntino, con tutti i meccanismi ben lubrificati, unicamente se accettiamo di usarlo nella relazione. Ogni sfioramento, emotivo o concreto, di un nostro simile ci scaricherà nelle sinapsi tonnellate d'informazioni, sicuramente gratificanti, ma per la stessa e identica ragione anche un grosso peso da gestire alla nostra felicità e serena esistenza. (...) L'anormale autistico, invece, di questo struggimento fa benissimo a meno, non per scelta, ma proprio per costituzione genetica. Lui è nato libero, ma sembra che noi, quasi per invidia, facciamo di tutto per costringerlo a costruirsi gli stessi legami che appesantiscono le nostre esistenze (...)

E ancora

Tommy è sereno quando sente affetto che non chiede verifica o risposta. Non mi sembra poco. Potessimo tutti sentirci amati senza dover necessariamente corrispondere, saremmo visceralmente appagati anche di una carezza... Siamo invece sempre ingabbiati in patti di sangue per cui dobbiamo ricambiare ogni milligrammo di attenzione che un nostro simile ha la generosità di attribuirci. E' una vera schiavitù, chiunque ne è condizionato. 

Lungi da me l'idea di vestire i paraocchi del buonismo e dichiarare apertamente che 'tutti gli autistici sono anime superiori e che dovremmo tutti essere come loro'. Sarebbe un insulto al dolore che un autistico e la sua famiglia vivono ogni giorno. E personalmente, in quanto disabile, detesto profondamente l'astratto assurdo e tristemente diffuso per cui tutti i disabili sarebbero speciali e che  "dovremmo imparare da loro". Penso, senza tanti giri di parole, che siano tutte palle. I disabili sono persone. Punto. Sono, anzi.. siamo persone differenti e non ascrivibili a nessuna categoria caratteriale; possiamo essere speciali, normali, buoni o stronzi a nostro piacimento esattamente come gli altri. Nella maggior parte dei casi siamo, come tutti gli altri, una disordinata mescolanza di tutte questi aspetti.
Detto ciò, penso che dal ragionamento di Nicoletti, che racconta le riflessioni di un padre che ogni giorno teorizza e si arrovella nell'osservare suo figlio, io possa non imparare qualcosa nel senso letterale del termine, ma 'prendere nota' come piace dire a me. Prendere nota significa registrare nel mio cervello la possibilità di un comportamento diverso. Di un modo diverso di intendere la vita. Non è detto che io riesca ad applicarlo, ma posso sicuramente ricordarmelo al momento opportuno.

Tipo quando mi ritrovo a passeggiare in mezzo al viale della mia città e le occhiate della gente che osserva la mia bassa statura o le mie gambe stortarelle e un po' fuori asse iniziano a farmi star male e mi verrebbe solo voglia di scappare a casa mia.

Ecco in quel momento lì, potrei riprendere la registrazione nel mio cervello e ricordare a me stessa che forse Tommy se ne farebbe un baffo di tutte quelle occhiate e, se gli aggrada, girerebbe tranquillo e beato con il suo papà, incurante di quegli sguardi. Perchè fondamentalmente a lui (ma nemmeno a me...e nemmeno a voi!) non servono quegli sguardi per stare davvero bene.
E quindi, perchè ci adoperiamo tanto per far sì che quegli sguardi diventino così importanti per noi al punto da inficiare anche la più serena delle nostre giornate?

Non lo so, nel dubbio io prendo nota da Tommaso..e voi?

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