mercoledì 14 settembre 2016

Sei sempre tu, resisti


Quella mattina  ricordo di essermi svegliata con tutta calma.

Il sole che entrava dalle finestre. La schiena indolenzita da stiracchiare con cura. Il caffé in cucina. Intorno solo silenzio. Luce. Agosto e un costume umido sullo stendino.

A spezzare il ritmo di un risveglio da ferie è stata la realtà: mentre io pensavo a come trascorrere le mie ore di libertà, da qualche parte nel mio stesso paese c'era qualcuno che avrebbe pagato qualsiasi cifra possibile pur di andare a lavorare.

Salutare la famiglia, tutta quanta, e affrontare la vita. Ufficio, colleghi, scadenze, ritmi frenetici. Qualsiasi cosa purché fosse un giorno come tutti gli altri.

Ricordo di essermi svegliata e aver letto sul cellulare che nella mia stessa Italia in tantissimi si erano svegliati di soprassalto, nel bel mezzo della notte.

La terra che tremava di sotto, la casa che crollava di sopra. Ho immaginato la loro fuga, la loro paura. Consapevole che nemmeno con la più sfrenata fantasia avrei potuto davvero capire cosa si prova in quei momenti.

Il resto di quella notte e dei giorni successivi - le macerie, le divise fluorescenti dei volontari, i dispersi e i ritrovati, la fila di persone che vuole donare il sangue - sono nella mia testa un aggiornamento continuo da leggere sui internet e guardare in televisione.

Un insieme di storie, vite, occhi scavati e mani che si abbracciano. Proposte per ricostruire, iniziative per aiutare. 

Oggi vi racconto un progetto di raccolta fondi diverso, perché si propone con sincerità.

Non cerca la ribalta, non si pavoneggia.

Ma si costruisce con il lavoro silenzioso di una fotografa.

E spinge chi partecipa a mettersi in gioco.


Lei si chiama Adelaide Mossina. Ha ventidue anni e abita a Novara. La sua passione è la fotografia e per aiutare le popolazioni colpite dal sisma sta realizzando un progetto fotografico rivolto a tutte le persone che desiderano parteciparvi.

Tre scatti, una persona e un oggetto

Il più affezionato che questa possieda. Quello da afferrare un istante prima che tutto svanisca. Per salvarlo dalla distruzione estrema e, con esso, conservare ciò che resta della sua più intima identità.

In molti hanno già partecipato alla prima giornata di sessione fotografica, che comprende circa dieci minuti tra fotografie, piccola intervista e una donazione per i terremotati. In programma ci sono altre giornate di scatti e una mostra che comprenda tutte le immagini e la possibilità di raccogliere più donazioni possibili.

'Cosa salveresti in caso di terremoto' è un progetto che nasce pochi giorni dopo il sisma che ha colpito il centro Italia, ma che nella mente di chi lo ha concepito ha radici ben più profonde.

' Nel 2014 sono stata a L'Aquila dal mio fidanzato, che si è trasferito lì per inseguire la carriera da medico. La città si  presentava ai miei occhi come se il terremoto fosse stato poche ore prima, ma erano passati cinque anni. Palazzi sventrati, ammassi di giocattoli, vestiti, pentole e libri in mezzo alle strade del centro. Una città invisibile e dimenticata. Non ho più potuto dimenticare e ciò che ricordo è che la mia prima domanda è stata: se stessi per perdere tutto, cosa salverei? '

 
Ho scelto di parlarvi di questo progetto per due ragioni: 


> La prima è che mi é piaciuta la semplicità di chi lo sta realizzando.

'Cosa salveresti in caso di terremoto' è un progetto che Adelaide ha creato in pochi giorni e con l'entusiasmo della sensibilità.

Nessuna grande pubblicità, nessuna immagine toccante. Lei, che di professione fa la fotografa, ha scelto di proporsi in punta di piedi attraverso un post su Facebook.

Tutto il resto: le storie, gli scatti, gli oggetti delle persone coinvolte si svolgono poi in privato.

Nessun sbandieramento. Solo buona volontà.

> La seconda è che mi ha spinto a riflettere, interrogarmi, pensare. Fare uno sforzo che mi ha portato a conoscere qualcosa in più su me stessa.

Quando ho provato a chiedermi cosa avrei salvato in caso di terremoto, lo confesso, mi sono chiusa a riccio. L'ipotetico scenario di distruzione della mia casa, la mia famiglia e della mia intera persona mi avevano terrorizzato.

E d'istinto mi sono toccata il braccio su cui porto il mio tatuaggio. Chi vive si dà: la trasposizione su pelle di ciò che vorrei essere tutti i giorni. Una persona che vive al massimo delle proprie capcità. Che dà il meglio di quel che può.

Sfiorare quella porzione di corpo che racchiude i miei sogni e le mie speranze per il futuro mi è sembrata tanto una sciocchezza all'inizio. Poi ho capito che quel gesto inconsapevole era la vera risposta alla domanda. Di fronte a tutta la distruzione possibile so bene ciò che non vorrei perdere: me stessa.

Come il vento consuma le rocce così la vita cambia le persone. E se alcuni cambiamenti della mia vita mi sono sembrati così impercettibili da non poterli riconoscere altri mi hanno attraversato l'anima come una barchetta attraversa la tempesta.

Da queste burrasche sono uscita sempre diversa. Non migliore o peggiore, solo un'altra me. Nel tempo ho imparato a considerare quei momenti parte di me, del mio crescere e diventare come sono ora.
Ma una sensazione che ho bene in mente è soprattuto lo straniamento vissuto in quei periodi. Il senso di vuoto, la lontananza da me stessa.

Se potessi tornare indietro, alla me stessa di allora direi solo una cosa. 

Non preoccuparti, dentro sei sempre tu. Abbi pazienza e un giorno saprai riconoscerti ancora.

Per questo penso che se vivessi un terremoto, un evento catastrofico, qualcosa che mi costringa a ricominciare da capo, vorrei poter conservare il mio braccio e il suo tatuaggio.

O meglio, ciò che rappresenta.

Spersa, senza niente, forse anche senza nessuno vicino a me, vorrei avere con me qualcosa che mi dica Sei sempre tu, resisti.




[FOTO: ADELAIDE MOSSINA]

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